mercoledì 20 marzo 2013

Giorgio Lo Cascio - Cento anni ancora (1976) e canzoni varie 1973-1989


Abbiamo già incontrato Giorgio Lo Cascio in uno dei post ideati contro la malinconia. La sua Fiori bianchi fiori scuri, intessuta di efficaci metafore che rievocano gli scontri di piazza dei Settanta, è una delle canzoni italiane più belle del periodo.
Giorgio Lo Cascio (1951-2001) nacque artisticamente sulle scene del Folkstudio, locale nato alle pendici del Gianicolo al sorgere degli anni Sessanta. Al Folkstudio è legata una ricca aneddotica (graziosa la storiella dell'esibizione dylaniana del 1962, davanti a quattro gatti più interessati al bar che a lui; il vate era in viaggio per Perugia, destinazione la compagna Suze Rotolo): aneddotica che, forse, dice poco di musica e molto sul clima sociale e politico romano di quel tempo. I compagni di viaggio di Lo Cascio: Francesco De Gregori (con cui formò un effimero duo), dylaniano convinto, Antonello Venditti, devoto di Elton John, il facondo Ernesto Bassignano.
La discografia del cantautore romano è sommessa e riservata. Come il suo autore è quasi misconosciuta (ed inedita in CD): ho faticato a racimolare un album intero e parti degli altri tre (La mia donna, 1973; Il poeta urbano1976; Il vaso di Pandora, 1989). Merita però di essere divulgata, non tanto per i suoi meriti artistici (che pure vi sono), ma perché, tramite la sua figura, secondaria e sfortunatissima, possiamo rievocare un particolare momento della storia italiana e romana: un periodo, mi arrischio a dire, felice.
Dei primi anni Settanta mi ricordo "come per suonno", come in un sogno, poiché ero quasi un infante. Vivevo in un suburbio popolare; ci erano familiari figure come il varichinaro, il biciclettaro, il vinaro e l'oliaro, la merciaia. Spesso dai  balconi venivano calati dei canestrelli con dentro qualche centinaio di lire: accorreva il garzone del fornaio (il cascherino di pasoliniana memoria, reso celebre da una pubblicità di Ninetto Davoli), pigliava i soldi, deponeva un cartoccio e un po' di spiccioli di resto, il canestrello veniva issato: "Grazie regazzì!". Non era difficile sentire, sempre 'dar fornaio' serissime ordinazioni: 'mezz'etto de mortatella', una bustina di Idrolitina o Frizzina. Studiare, studiavamo quasi tutti; il nostro maggior vanto era mostrare l'astuccio all'inizio dell'anno scolastico; era ambita la matita bifronte, rossa e blu; l'odore del gesso e del legno delle matite profumava l'aria; il pallone era l'unico gioco di massa, oltre alla schicchera (giocata con biglie di vetro). Un capofamiglia bastava a cinque, sei persone. C'era il filobus, il biglietto (vidimato dal bigliettaio in carne e ossa) costava Lire 50, una ciambella Lire 100. Adesso un biglietto costa Euro 1,50, una ciambella 0,90 il che non depone a favore dell'attuale amministrazione tramviaria comunale (o forse depone a favore dei fornai). 
Ogni volta che ascolto gli arpeggi di Giorgio Lo Cascio mi vengono in mente queste cose. Non so neanche perché ve ne parlo. Mi sovviene un mondo forse chiuso in se stesso, ma ancora basato su una certa idea comunitaria del vivere; in cui i rapporti erano costruiti su modelli immediatamente riconoscibili, secolari, spontanei. La politica, la musica, erano espressione di tutto questo. 
Il 1976 fu anno di svolta, totale e irreversibile. Cominciava a svanire il vecchio ordine. Svanivano le genti, i popoli, le associazioni, i legami profondi. Nella borgata fece irruzione la droga. In pochi anni se andarono a decine. Il cascherino pure: lo trovarono in un cesso nel 1980 o giù di lì. Si era alle porte del nuovo mondo mirabile. Quando me ne andai dalla mia prima casa di tutto ciò avevo vissuto sino a poco tempo prima non era rimasto nulla. 
Lo Cascio se ne andò a neanche cinquant'anni, ma il mondo delle sue canzoni andava sbiadendo, il tessuto che le formava (sensazioni, passioni, nostalgie, speranze) era ormai incomunicabile alle nuove generazioni. La nostalgia lo ricorda per noi, pochi e felici, come in un sogno lontanissimo.

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